Alberi: domande semplici, ardue risposte

Che cos’è un albero?

Tutti sappiamo riconoscere un albero, anche a distanza e fin dalla più tenera età. Quando ci viene richiesto di darne una definizione formale spesso però tutte le nostre certezze cominciano a scricchiolare.

In base a libri e dizionari la definizione di albero spazia molto. Da una prospettiva botanica, in Thomas (2000), ’albero’ viene definito una pianta con un fusto legnoso autoportante, che vive per più di un anno. Secondo Raven et al. (1986), ‘albero’ può essere una pianta perenne legnosa, generalmente con un fusto singolo (tronco). Ma, come evidenziato da Hirons e Thomas (2018), molti ‘alberi’ possiedono molteplici fusti e comunque non li definiremmo arbusti; inoltre, altri ‘alberi’ non sono autoportanti per la maggior parte della loro vita, come per esempio certi Ficus detti ‘strangolatori’. In Cox (2011), gli ‘alberi’ vengono distinti dalle altre piante per il fatto che possiedono dei fusti legnosi, in riferimento all’accrescimento secondario prodotto dalla divisione dei cambi; anche gli arbusti possiedono questa caratteristica ma si differenziano dagli ‘alberi’ per il fatto che non possono raggiungere altezze superiori ai 6 m e che di solito possiedono molti fusti che dipartono fin dall’altezza del suolo. Ma lo stesso autore evidenzia i limiti di questa definizione: nelle regioni montuose, per esempio, ci sono piante (come il pino mugo) che possono essere alte solo poche decine di centimetri ma che vengono comunque considerate ‘alberi’, nella stessa maniera in cui gli alberi bonsai sono classificati, appunto, come ‘alberi’. È poi interessante notare come le radici, componente essenziale di un albero, siano solitamente omesse dalla definizione dell’albero stesso (Bernatzky, 1978).

A sostegno della poca chiarezza e univocità della definizione, è da notare che di per sè nei testi di sistematica evoluzionistica (es. Campbell e Reece, 2004) o di identificazione delle piante (Pignatti, 1982; Judd et al., 2007) queste caratteristiche sono poco considerate ai fini della classificazione, mentre viene data molta importanza a caratteri più oggettivi quale la formula fiorale o la tipologia di semi e foglie.
La definizione del termine ‘albero’ potrebbe dunque essere oggetto di un corposo dibattito. Come suggerito da Hirons e Thomas (2018), forse la definizione più utile potrebbe essere quella proposta dal giudice Lord Denning all’interno di una sentenza ai sensi dell’“UK Town and Country Planning Act”: “Un albero è tutto ciò che una persona normalmente chiamerebbe albero”.

Perchè alcuni alberi sono così alti?

L’altezza è una componente cruciale della strategia ecologica di una specie vegetale. L’altezza è una delle caratteristiche determinanti la capacità di un albero di competere per la luce, fonte di energia necessaria per svolgere la fotosintesi a livello delle foglie o dei giovani rametti. Gli alberi non possono muoversi come fanno gli animali e quindi l’unica maniera per ottenere la luce necessaria alla loro vita è l’accrescimento in direzione dello stimolo luminoso (tropismo positivo).
Generalmente, man mano che diventano più alti gli alberi cercano di occupare gli spazi più ricchi di luce, fino a che non raggiungono la volta della foresta (‘canopy’) e non devono più competere per la luce con le piante adiacenti (di specie diverse o della stessa specie; Sterck e Bongers, 2001).

Gli alberi possono essere dei forti rivali nei confronti di altre piante legnose e della vegetazione erbacea, privando della luce le piante più basse. Gli alberi alti hanno spesso sistemi radicali profondi ed estesi che consentono loro di crescere in ambienti ostili, estraendo dal suolo acqua e nutrienti in maniera più efficiente rispetto ad altre piante più basse (Bovey, 2001).
L’altezza di una pianta è un tassello importante di un set di tratti evoluzionistici che comprendono anche il tempo necessario per raggiungere la maturità di riproduzione, la quantità di semi prodotta ogni anno e la longevità (Moles et al., 2009); a logica, infatti, dal punto di vista evolutivo, per le specie eliofile solo gli individui più alti degli altri, che vincono la lotta per la luce, riescono ad accumulare abbastanza energia per la riproduzione.

Nelle piante, l’investimento energetico per la crescita in altezza per migliorare l’accesso alla luce comporta però importanti costi di costruzione e mantenimento del fusto. Ecco che l’accrescimento secondario del fusto legnoso diventa fondamentale per ottenere una struttura rigida in grado di supportare un’architettura della chioma in espansione, non solo per il carico statico del peso stesso, ma anche per resistere alle forze dinamiche (es. vento) o all’attacco da parte di agenti patogeni (Hirons e Thomas, 2018). Ma la crescita secondaria permette anche di aumentare la capacità di trasporto di acqua e sali minerali verso le foglie e dei carboidrati in senso opposto (Mauseth, 2006); di conseguenza la pianta può produrre un maggior numero di foglie e radici ed aumentare il suo tasso di attività fotosintetica.

Poiché gli alberi più alti sono anche quelli con un tasso metabolico maggiore e con la maggiore produzione di nuova biomassa, l’altezza della pianta influenza anche importanti caratteristiche dell’ecosistema, come la capacità di sequestro del carbonio. Infine, l’altezza di un albero è anche correlata positivamente con la biodiversità animale (ad esempio, il numero di specie di uccelli e mammiferi che possono vivere o nutrirsi dell’alto fogliame).

Naturalmente, come per molte leggi in natura, esistono delle importanti eccezioni. Alcune specie, come ad es. Taxus baccata L., a crescita più lenta, hanno sviluppato un trend evolutivo diverso. Esse infatti non riescono a monopolizzare tempestivamente i varchi nella volta del bosco e devono sopravvivere a periodi di carenza di luce, accrescendosi solo quando ne è disponibile una quantità sufficiente, fino a raggiungere la maturità (Sterck e Bongers, 2001). Queste specie, tolleranti all’ombra, riescono a vivere (o sopravvivere) all’ombra di altri alberi grazie agli adattamenti che hanno evoluto: per esempio nelle loro foglie il rapporto clorofilla a/clorofilla b è più basso, i cloroplasti sono di dimensioni maggiori, le foglie più sottili e gli stomi più grandi (Givnish, 1988).

Perchè alcuni alberi perdono le foglie in autunno?

Le regioni alle medie latitudini (fra 40 e 60°) presentano un clima di tipo temperato, caratterizzato da ampie oscillazioni di temperatura su scala giornaliera, mensile e annuale e una variazione stagionale del fotoperiodo (durata del giorno; Vitasse et al., 2014). Per prosperare in tali climi, gli organismi devono resistere a un freddo inverno applicando tecniche di sopravvivenza molto diverse.

Alcuni animali con l’arrivo dell’autunno e poi dell’inverno entrano in letargo per ripararsi dal clima rigido. Alcuni infatti non possederebbero un fisico adatto a sopportare il freddo, altri non troverebbero il cibo per sfamarsi e mantenersi caldi; questi animali si rifugiano dunque nella loro tana, rallentano le funzioni vitali e sopravvivono consumando le riserve accumulate prima dell’inverno.

Per la maggior parte delle piante perenni, le fresche temperature d’autunno causano l’inizio di una catena di risposte che le preparano alle fredde e stressanti condizioni invernali (“acclimatazione fredda”), incrementando la possibilità di sopravvivenza della pianta stessa (Mauseth, 2006). In maniera simile al letargo degli animali, nelle zone temperate, la dormienza è un meccanismo che gli alberi usano per sopravvivere a condizioni ambientali sfavorevoli, proteggendo in tal modo i tessuti sensibili (Campony e Egea, 2011; Vitasse et al., 2014). La dormienza è affrontata in maniera diversa da due categorie principali di alberi: le caducifoglie e le sempreverdi.

Nelle caducifoglie, le foglie muoiono e cadono più o meno tutte assieme nella stagione sfavorevole, generalmente l’autunno, lasciando gli alberi spogli e pronti per la dormienza (Mauseth, 2006). Ma attente osservazioni rivelano che la “dormienza” coinvolge molti fenomeni, che iniziano molto prima. Durante la crescita vegetativa in primavera e in estate nei tessuti di stoccaggio della pianta vengono accumulate le riserve energetiche (es. amido). Due o più mesi prima della caduta delle foglie si formano inoltre le gemme terminali, pronte per l’anno successivo (Perry, 1971). Giunto l’autunno, la senescenza delle foglie viene indotta principalmente dalla diminuzione della durata giornaliera delle ore di luce (fotoperiodo); solo poche specie invece, come Liquidambar spp., rispondono principalmente ai cambiamenti della temperatura (Hirons e Thomas, 2018). Il cambio di colore delle foglie autunnali trasforma interi paesaggi in un mosaico di giallo, arancione e rosso (Archetti et al., 2008). Le molecole utili (es. minerali) presenti nella foglia vengono riassorbite dall’albero; solo successivamente, in momenti diversi a seconda della specie, alla base della foglia si forma una zona di abscissione, che permette alla foglia di staccarsi autonomamente oppure con l’aiuto del vento. Durante la dormienza tutti i processi metabolici sono rallentati ma non arrestati: sebbene non si assista per esempio a un allungamento degli internodi, i germogli formatesi in autunno possono accrescersi durante i mesi invernali, così come le radici quando temperatura e umidità del suolo sono abbastanza elevate; inoltre, la corteccia e i rami contenenti grandi quantità di clorofilla possono contribuire con la fotosintesi, e la respirazione cellulare non viene arrestata. Quando verrà interrotta la dormienza? La maggior parte delle specie caducifoglie riprendono l’accrescimento vegetativo in seguito al raggiungimento del fabbisogno in freddo e poi del fabbisogno in caldo, valori fondamentali ampiamente studiati per gli alberi da frutto (Perry, 1971).

Al contrario delle caducifoglie, in altre specie dette sempreverdi le foglie permangono per vari anni (di solito 2 o 3), poi si staccano un po’ alla volta (Mauseth, 2006). Queste specie sono esempio di un percorso evolutivo leggermente diverso rispetto alle caducifoglie, ma con dei punti in comune: le sempreverdi entrano in dormienza alla fine dell’estate abbassando i tassi fotosintetici e necessitano anch’esse di un fabbisogno di freddo nel periodo invernale. Per superare lo stress da gelo, che potrebbe congelare i tessuti con potenziale danno a livello delle cellule, queste specie hanno sviluppato degli adattamenti ad hoc. Per esempio, alcuni studi hanno dimostrato come lo spessore delle foglie nelle specie (di latifoglie) che crescono a quote più elevate ed esposte a temperature più basse sia maggiore rispetto a quello delle specie di pianura. Le conifere sempreverdi comprendono alcune delle specie di alberi più tolleranti al congelamento, con alcune specie che possono sopravvivere anche a temperature estreme di -60°C. Gli aghi delle conifere sfruttano molte delle strategie di acclimatazione al freddo utilizzate da altre specie di latifoglie (es. sopraffusione, modifica della composizione della membrana), ma possiedono anche cuticole spesse che proteggono dall’abrasione e dall’essiccamento causato dalla neve e dai venti forti; inoltre, le tracheidi nelle conifere hanno diametri inferiori rispetto ai vasi delle latifoglie, limitando le embolie indotte dai cicli di gelo/disgelo (Roden et al., 2009). Gli aghi di molte conifere sono poi in grado di raccogliere l’acqua dalla nebbia, dalle precipitazioni o dallo scioglimento della neve. Questo assorbimento sembra svolgere un ruolo importante nelle conifere, per il recupero della conduttività idraulica a fine inverno e all’inizio della primavera, anche quando il terreno è ancora congelato (Hacke et al., 2015).

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Immagina un Bosco / Image a Forset

 

Bibliografia

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